L’articolo è stato pubblicato su Il Secolo XIX il 15 novembre 2018

Condividere il modo di vivere (co-living), gli spazi abitativi (co-housing) o il modo di lavorare (co-working) rappresenta la nuova dimensione della convivenza per far fronte a criticità sociali o, all’opposto, per corrispondere a nuovi stili di vita. Sul loro insieme gli investimenti immobiliari crescono, materiali innovativi rivoluzionano le costruzioni, nascono nuove start up di grande successo come ad esempio Roomi per trovare il “perfetto coinquilino” (17 milioni di Dollari di giro d’affari).

150 menzioni al giorno (82% in lingua inglese) su tutti i mezzi di comunicazione dimostrano l’ampiezza del fenomeno. I casi più interessanti prefigurano un cambiamento epocale perché vanno oltre la logica del business immobiliare mostrando segni di una società in forte evoluzione dal punto di vista economico (share economy), della partecipazione (resilienza, condivisione), della sostenibilità (green economy) e, soprattutto, la visione alternativa di vita e di lavoro delle nuove generazioni. Roam Co, rete di coliving globale nata a San Francisco nel 2011, invita a “vagare, per rendere questa vita una meravigliosa avventura”. E’ una fra le tante che si rivolge a free lance e nomadi digitali (il 50% della forza lavorativa nel 2020 secondo uno studio UE): “Con 1000 euro al mese puoi permetterti di vivere a Bali o in altri posti non dico nel lusso ma sicuramente molto meglio che a Milano o Londra”.

Per altri conta soprattutto la socializzazione. Sono molti i messaggi del tipo: “La felicità è data dal senso di comunità e appartenenza”, “Il cohousing è uno stile di vita collaborativo che garantisce una alta qualità della vita”, anche se sui social non mancano reazioni totalmente ostili: “Già, come in Russia negli appartamenti condivisi, cucina in comune con le pentole col lucchetto”, “Utopia! È difficile mantenere rapporti civili in un condominio, figurarsi in un sistema “cohousing”. Un tweet del 18 ottobre è diventato virale: “Dirò una verità scomoda, ma se sei in un coworking con un centinaio di altre persone che lavorano e parli al telefono urlando, sei un coglione maleducato”. Ma negli spazi urbani sempre meno disponibili e costosi e con problemi sempre più incombenti – carenza di abitazioni, sicurezza, inquinamento, coesione sociale, assistenza anziani – il coliving e cohousing stanno diventando una prospettiva e su questa stanno confluendo grandi investimenti immobiliari. Un caso emblematico è Los Angeles dove pensano di investire 1,2 miliardi di $ per realizzare 10.000 spazi abitativi e micro-unità di transizione in grado di assorbire, almeno in parte, anche il fenomeno dei senza fissa dimora (53.000 quelli contati in una notte a Los Angeles).

Milano rappresenta forse l’unica città italiana a mettere in atto una strategia di lungo periodo. E’ la sola a partecipare al bando internazionale “Reinventing Cities” che prevede l’alienazione da parte del Comune di 5 siti inutilizzati o in stato di degrado a favore di progetti di rigenerazione urbana con benefici per la comunità attraverso il coliving, cohousing e coworking. Una visione e una formula operativa che potrebbe essere d’aiuto anche per Genova con i suoi – tanti, inutilizzati e degradati – non-luoghi.

Intanto stanno crescendo gli spazi di lavoro condiviso con la presenza di reti internazionali (Regus, Cowo) e attraverso esperienze di community produttive di nicchia come Talent Garden e Digital Tree, Social Hub e Fondazione Labò, Condiviso in Darsena e Wylab a Chiavari. Tutti casi di “sharing cooperation” che sottintendono una cultura sempre più nomade e al tempo stesso bisognosa di radici e condivisione (a Genova piacendo).

Sergio Di Paolo