L’intelligenza è il metro con cui la società occidentale valuta le persone, e il sistema meritocratico nel quale confidiamo si è dato un gran daffare per misurarla. La tentazione che le differenze fossero spiegabili attraverso la genetica è durata molto: si è partiti dalla forma del cranio a fine ‘800, per arrivare al Quoziente Intellettivo negli USA nel 1916. Perché i neri hanno un QI mediamente inferiore di 15 punti rispetto ai bianchi? Perché i figli della classe operaia hanno un QI mediamente più basso di quello della classe borghese? E così via. Oggi la scienza ha fatto pulizia di queste speculazioni di sapore razzista. Gli studi sulla nostra testa sono molto avanzati e da un decennio circa è accertato che, paradossalmente, l’intelligenza non esiste, semmai esistono “le intelligenze” (sociale, logica, corporale, spaziale, eccetera). Una prova su tutte: Einstein, il padre della teoria della relatività, bocciato tre volte.

Tuttavia, nonostante l’accanimento accademico sull’argomento, fra le 112 qualità di intelligenza individuate ne manca una molto italiana: la furbizia, di cui ormai possediamo una casistica scientificamente inoppugnabile. Si tratta di una tipologia di intelligenza particolare perché, rispetto alle altre categorie, i furbi necessitano di una controparte: i fessi.  Al contrario degli intelligenti, sui fessi non ci sono studi, tanto che si pensa che siano un unico genere, mentre è logico aspettarsi che anche qui ci siano dei distinguo, con conseguenze ancora non valutabili, potenzialmente rivoluzionarie. Pensiamo agli illusi per esempio, cioè a quelli che spesso sono gli unici a sostenere un cambiamento. Joseph Conrad, lo scrittore di Linea d’Ombra, offre loro una speranza: “Non avere illusioni è cosa onesta, sicura e vantaggiosa … e noiosa”.