Diamo un po’ di numeri. Dal primo gennaio, il monitoraggio basato su tecnologia web distilled e impostato in italiano e inglese, ha rilevato oltre 85.000 contenuti (tra news, post, tweet, blog e articoli di giornale) sulle tematiche del coworking, coliving, cohousing e coeconomy (alcuni dei nuovi trend dell’economia e della socialità). In media oltre 300 menzioni al giorno. Il 75% è dedicata al coworking (fenomeno effettivamente più conosciuto e dibattuto da tutti). L’84% è in inglese.
Tra noi e il mondo anglosassone emerge una differenza (non solo per quantità di messaggi emessi) ma anche rispetto alle tematiche trattate. In inglese è molto presente il tema “real estate” (e quindi l’impatto che hanno sul mercato immobiliare le esperienze – sempre più diffuse – di coworking, coliving e cohousing), mentre in italiano prevalgono istanze sociali (sia dal punto di vista delle imprese sociali coinvolte in sperimentazioni di economia condivisa, sia rispetto all’impatto sociale che coworking, coliving e cohousing determinano).
In Italia, a settembre, il dibattito lo accende un tweet di Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, una delle città tra le più colpite dalla pandemia, che scrive: “Io credo si debbano attrezzare dei luoghi di coworking nelle città. Così si riduce il pendolarismo verso le grandi metropoli – ore perse in auto o sui treni – ma non si obbliga la gente a lavorare in casa, e si consente il dialogo, e magari anche la collaborazione, tra lavoratori.”
Il messaggio diventa virale e genera numerosi commenti. Uno tra tutti inquadra il tema alla perfezione, è quello di Francesco Luccisano, che ribatte così: “Mi piacciono molte cose dello #smartworking: fiducia al posto di controllo, squadra al posto di gerarchia, risultati al posto di timbrature. Solo una cosa non riesco a mandare giù: lavorare da casa. Il lavoro che ti entra in camera, che ti bussa in bagno, che concorre con la famiglia.”
In questi mesi tra lockdown e tentativi di ritorno alla normalità, la connessione coworking-smart working si è fatta spesso molto stretta. Abbiamo imparato a lavorare da casa (e anche i datori di lavoro lo hanno capito) ma riuscire a difendere la propria vita personale e familiare dall’incombere continuo del lavoro è complicato. Va bene la “comodità” (di stare a casa) ma è giunto il momento di passare alla “prossimità”.
È su questo che fa perno il nuovo rinascimento che oggi stanno vivendo gli spazi di coworking, specialmente quelli di dimensioni ridotte – non le grandi “catene” – e quelli, appunto, “di prossimità” o anche suburbani. Anche a livello internazionale il dibattito si concentra su questo. A Bristol, il coworking “Future Space” ha lanciato una nuova tipologia di membership più flessibile pensata per le PMI a cui non servono scrivanie fisse ma piuttosto una alternativa per i propri dipendenti al lavoro da casa.
A Santa Barbara, in California, la testata giornalistica “Optimistic Daily” che ha come mission di diffondere positività e soluzioni percorribili (e già questa di per sé sarebbe una notizia), ha recentemente pubblicato il progetto urbanistico di una nuova città da costruire in Cina ideato dallo studio Guallart Architects di Barcellona. La città del futuro è (ovviamente) molto green (pannelli solari, balconi e giardini, percorsi alberati, strade ciclabili e pedonali) e prevede che le case siano pensate per essere anche luoghi di lavoro (in caso di un nuovo lockdown) e che i quartieri abbiano “coworking di prossimità” (per quando si può uscire).
Dagli Stati Uniti arriva anche un’altra notizia che, a luglio ha generato un vero e proprio picco di comunicazione. Settanta testate giornalistiche online hanno pubblicato una ricerca da cui si evince che fino alla fine del 2021 il 6% del totale dei lavoratori americani presterà il proprio servizio interamente da remoto e che tra il 25% e il 30% lavorerà da casa più giorni alla settimana, conclusione: sono sempre più ricercati i “coworking suburbani”.
Mentre si afferma sempre più il concetto di prossimità e si valutano rischi e benefici del sistema alle prese con un autunno delicato tra riaperture delle scuole e rischi di nuovi contagi (quasi 28mila degli oltre 85.000 contenuti citano corona virus, covid, lockdown, pandemia, etc.), su twitter esplode un dibattito sul coliving, ovvero le nuove soluzione dell’abitare insieme.
Lo genera un servizio pubblicato dal Corriere della Sera. Il titolo recita “Co-living, abitare insieme (da adulti): le generazioni affitto” e comincia così: “si chiama co-living: lo scelgono giovani professionisti, nomadi digitali e cresce la quota degli over 45. Il bello è che non devi far altro che pagare un fisso: tutto è incluso. Anche la compagnia di persone affini: da 4 a 8 sconosciuti”. È scritto da Andrea Federico Cesco e delinea un interessante spaccato della situazione italiana e delle potenzialità di sviluppo.
È un articolo da leggere (lo si trova facilmente online) perché fa sentire “normali” in un’epoca “anormale”. Lo ha reso virale un tweet in realtà provocatorio: “Co-living, ossia diventi povero e senza casa ma ti fanno sentire alla moda. Si torna all’era dell’Inghilterra “vittoriana” coi moderni proletari ammassati in pochi metri quadri. È il futuro contesto metropolitano, rovesciamoli!” (Marco Rizzo, segretario del PC).
I sistemi di prossimità ci avvicinano mentre il dibattito social ci allontana? Ecco un piccolo corto circuito sulla strada dell’interoperabilità: il rapporto tra i processi “sociali” e i processi “social”!
L’articolo è stato pubblicato sul blog 6memes del gruppo MAPS. Qui l’articolo originale.