Una mia amica di Camogli raccontava della nonna che univa gli spaghi usati, raccogliendoli in un enorme gomitolo. Se i cordini erano minimi la nonna coscienziosamente li riponeva in una vecchia scatola di latta (sopportando l’ironia della nipote). Allora mi sembrò una storia di ordinaria taccagneria, oggi ne parlo come un fulgido esempio di blue economy. Quando a Genova cambiò il sistema di raccolta dei rifiuti con l’uso dei “cassonetti” (prima passava lo spazzino porta a porta con un saccone) agli utenti vennero forniti sacchi di plastica nera, che andavano chiusi. Ed è lì che la nonna ebbe la sua rivincita donando la scatola di latta alla nipote: “Visto? Tutto serve”. Con la red economy sfruttiamo intensivamente le risorse per realizzare economie di scala, con la green economy preserviamo la natura ma i costi sono alti. La blue, è un modello economico nuovo che punta sulla bio-mimetica (sviluppo basato non su ciò che possiamo estrarre dalla natura, ma su ciò che possiamo imparare da essa) e sull’imitazione degli ecosistemi (la natura usa tutto e rigenera tutto). Le imprese che imparano da questo sono all’avanguardia, investono, guadagnano e danno occupazione. Per l’economista Gunther Pauli, in 10 anni, 100 innovazioni già pronte, derivate dalla capacità della natura di rigenerarsi, forniranno 100 milioni di posti di lavoro. Un coleottero nel deserto del Namib insegna come non sprecare infinitesimali frazioni di umidità, in Sardegna studiano fiori che auto-generano il calore che scioglie la neve, in Liguria pensiamo di ricavare energia dalla pasta delle olive. Nell’ultimo rapporto al Club di Roma è citato un proverbio giapponese che riassume il senso della blue economy: “Non sprecare, nulla ti verrà a mancare”. A Camogli la pensano uguale.