Per chi si occupa di management il termine “eccellenza” rappresenta un caposaldo preciso nella storia dei modelli organizzativi e gestionali. Il “culto” del concetto di “eccellenza” nasce nel 1982 con la pubblicazione del libro di Tom Peters e Robert Waterman, “In search of excellence” (recentemente ristampato), che diventò subito un best seller con milioni di copie vendute, a tutt’oggi imbattuto nella saggistica professionale. Indicatore quest’ultimo di una grande speranza o, come qualcuno scriverà più tardi, di una grande illusione: quella che possa esistere un modello in grado di discriminare le organizzazioni destinate al successo, da quelle destinate al fallimento.
Il metodo con cui i due consulenti arrivarono alla “teoria dell’eccellenza” fu l’analisi del comportamento di 43 aziende americane di successo che portò alla identificazione di otto caratteristiche del management: 1. Preferenza per l’azione, 2. Orientamento al cliente. 3. Autonomia e imprenditorialità. 4. Produttività attraverso la Qualità, 5. Enfasi sui valori chiave, 6. Attenersi a ciò che si sa fare, 7. Struttura semplice e staff ridotto, 8. Comportamenti rigidi e flessibili nello stesso tempo.
Come si può notare sono tutte considerazioni a tutt’oggi “sposabili”. Ma dove sta il problema? perché una osannata metodologia manageriale è tornata ad essere una semplice parola anche se evocatrice di grandi suggestioni?
Il semplice fatto che, a soli cinque anni di distanza, i 2/3 delle 43 aziende “modello” attraversavano un profondo periodo di crisi. Al contrario, altre organizzazioni, più o meno refrattarie agli 8 principi sopra elencati, prosperavano.
“Qualcosa non va nell’attuale pensiero manageriale” è stato il commento degli esperti: le imprese di successo sono riconducibili ad una infinità di storie particolari, intuizioni personali, anche comportamenti “irragionevoli” (“le cose ragionevoli le sanno fare tutti” e quindi non sono necessariamente competitive scriveva Charles Handy ne l’Epoca del Non Ragione). Insomma siamo al paradosso che “l’eccellenza non esiste ma non ci si può rinunciare”. Torniamo così, sempre, alla “dannazione” del manager moderno la cui qualità professionale, in sintesi, sta nella capacità di convivere con i paradossi e le contraddizioni.